La trama di "Amare note"
Come mai Mozart, genio riconosciuto e apprezzato nei secoli, non ha una tomba, neppure una croce sotto cui porre un fiore?
A cosa fu dovuto l’improvviso spegnersi della straordinaria creatività di Rossini, il quale morì a 76 anni, ma smise di comporre quasi quaranta anni prima?
Il romanzo, che si svolge sullo sfondo di un inizio Ottocento sconvolto dalle guerre napoleoniche, tenta di rispondere a queste domande con una fantasiosa ipotesi, comunque intrigante, dai colori tipici del melodramma, una storia d’amore e di inganni, ma anche di speranza nella possibilità di redenzione dello spirito umano.
Considerazioni di Guglielmo Bilancioni, saggista, storico dell'architettura e studioso del Buddhismo
“Avrebbe dovuto essere contenta e invece aveva voglia di piangere.”
E, intorno, la campagna, il vino, tanto vino, la spinetta per la musica, la minestra, l’acqua al ruscello, il tavolo di legno, il fruscio della penna sulla carta con il pentagramma: sono gli elementi dell’intreccio tra realismo e fantasia, il quadro dipinto, la scena, fissa, di due vite, due anime, che il destino ha intrecciato.
Questo bel libro sa raccontare anche il quadro interiore, etico -ethos è la dimora abituale- di chi agisce, e subisce, lo svolgersi degli eventi. Il portato psicologico del semplice accadere.
Allora: leggere e scrivere, insegnare e imparare, comporre e patire, in mezzo a “pioggia e austriaci, austriaci e francesi, e ancora pioggia”, nel gorgo di “bisogni triviali e immediati”, fra trasformazioni che avanzano pur “mantenendo la sensuale melanconia, l’erotica inquietudine dell’adolescenza”, caratterizzano la dinamica di questa storia che riserverà al fortunato lettore tante sorprese. Vi si racconta del significato dell’ispirazione, dell’uso, proprio o improprio, del talento, dell’amore che finisce e di quello che nemmeno comincia, della dedizione che diventa devozione, della “vera musica”, delle attese e delle costrizioni. E intrusioni e delusioni.
“La verità è che a gente come noi… non è concesso essere felici. Qualsiasi strada possiamo prendere, che seguiamo il buon senso o no, ci è riservata solo la sofferenza.”
Pessimismo e ottimismo, grazia e gentilezza si mescolano, mentre la natura immobile, ciclica, si rinnova sempre uguale: “il vento mormora, la terra si dispera.”
In un saggio illuminante su Il Narratore, Nikolaj Semënovič Leskov, Walter Benjamin scrive: “L’esperienza che passa di bocca in bocca è la fonte a cui hanno attinto tutti i narratori. E fra quelli che hanno messo per iscritto le loro storie, i più grandi sono proprio quelli la cui scrittura si distingue meno dalla voce degli infiniti narratori anonimi.”
Il Narratore, lo Storyteller, estrae dalla sua esperienza, che alcuni chiamano fantasia, un racconto che interpreta mentre descrive, affascina mentre lascia interdetti, fa pensare mentre intrattiene.
“Tutto ciò -continua Benjamin- rinvia alla natura della vera narrazione. Essa implica, apertamente o meno, un utile, un vantaggio. Tale utile può consistere una volta in una morale, un’altra in un’istruzione di carattere pratico, una terza in un proverbio o in una norma di vita: in ogni caso il narratore è persona di ‘consiglio’ per chi lo ascolta.” E “consiglio, cucito nella stoffa della vita vissuta, è saggezza.”
Tenendo conto che “non c’è nulla che assicuri più efficacemente le storie alla memoria di quella casta concisione che le sottrae all’analisi psicologica”, insomma, in generale, “scrivere un romanzo significa esasperare l’incommensurabile nella rappresentazione della vita umana. Pur nella ricchezza della vita e nella rappresentazione di questa ricchezza, il romanzo attesta ed esprime il profondo disorientamento del vivente.”
Fin qui Benjamin.
Si comprende allora la scrittura intesa come artigianato, come mestiere, a volte come vocazione, e questo sembra proprio il caso.
Poiché a tratti il Narratore è qui davvero commovente: “le stava offrendo il suo aiuto e il suo incondizionato affetto: “Caro maestro…” mormorò lei, con tenerezza, coprendolo con una coperta per non fargli prendere freddo.”
Il termine Maestro è ricorrente: maestro nella sua arte, maestro di vita: colui che insegna la sua arte, colui che insegna, mentre impara, a stare al mondo. Maestro di musica, maestro di scuola, direttore e compositore di ineffabili emozioni.
La musica fa ridere e piangere, fa danzare, trascina dentro la gioia o fa macerare nella malinconia, risolleva, consola, lenisce addolcendo o acutizza inasprendo: “quando ascolto la musica mi manca sempre qualcosa”, dice un personaggio di Walser, sublime narratore.
Come l’amore: music is love.
Amare note, in questo caso, significa allora, al di sopra dell’amarezza che squassa, amare LE note, la musica, la più immateriale delle arti, che libera commozione e cognizione, trasporta in alto l’anima, suscita i ricordi, ci mostra l’Oltre che è dentro di noi.
Ma la decadenza è in agguato, fatale, e reca con sé una immensa tristezza, perché il conosci-te-stesso, dovere morale di ogni artista e motore di qualunque espressione, degrada e precipita con l’ispirazione e l’autostima.
Dicevano “che la mia musica… sarebbe stata ineguagliabile… e ora chi sono? Cosa sono diventato? … Un niente.” Amedeo Gasperini si sente distrutto. Uno zero, tondo tondo. Lui è una creatura fragile e aggravata dal peso degli anni e della vita, lui prega perché fra le poche cose che riconosce c’è soprattutto il suo “graduale affondare nel silenzio”, in continue “folate di non-senso”.
Tutti sono trattenuti in questo racconto, tutti, pur con garbo e gentilezza, sono avviluppati in cose non dette, in superstizioni contadine, negli equivoci del non-sapere.
Così, fra scambi di persona, reincarnazioni, sensi di colpa, autopunizioni per non aver saputo essere espliciti, si assiste -con la distanza di sicurezza che è la delizia dello spettatore-lettore- a un progressivo intrigo psichico che sovverte spazio e tempo. E Amedeo cerca di continuo di affogare nell’alcol, e non si comprende se il suo sia un bere per dimenticare o un bere per ricordare. Forse le due cose insieme.
Viene alla mente un verso meraviglioso di una canzone di Leonard Cohen:
“I can’t forget, I can’t forget, I can’t forget, but I can’t remember what.”
La perdita delle proprie capacità, del proprio Sé, come il non saper più riconoscere è caos mentale: il puro tragico.
L’essenza del Tragico sta in questi rovesciamenti che trasformano un essere umano in una vittima sacrificale: una cosa per un’altra, un presentimento al posto della verità, la presunta evidenza rispetto alla effettiva intenzione, l’equivoco del mai-chiarito, le ambiguità delle supposizioni, volere il bene e fare invece il proprio male.
Un terremoto: la umana sofferenza ti rende “ansante, muto e sgomento”.
Vite vissute, vite rovinate da vili cattiverie e immense ingenuità, vite, nonostante tutto, salvate dall’amore e dall’amore per la vita.
Ma ingenuità è genuinità, e nella gentilezza c’è sempre, o quasi sempre, qualcosa che salva. In uno sguardo di simpatia, in un sorriso, in un gesto generoso, nel chiamarsi per nome, nell’offrire ad una persona cose mai provate prima. Come l’amor proprio, la gratitudine, e la bellezza di ciò che è disinteressato.
E in questa amabile e pur difficile via rotola la narrazione, il lettore viene avvoltolato gioiosamente nelle spire del racconto e corre curioso verso il finale; vuole davvero sapere come andrà a finire la storia.
Cosa abbia in serbo il Destino e cosa abbia in serbo per noi il Narratore quando si interrompe la lettura è come quando si mette in pausa la visione di un film, si sospende tutto, i personaggi si fermano, le azioni si bloccano e il lettore, in gioiosa attesa, sa che quelle Personæ aspettano lui, a loro volta, per riprendere il dramma, per muoversi ancora nel teatro della loro storia.
Si torna sul libro, e si ritrova la puzza di un corpo violento, con una mente violenta (un parassita, un ricattatore, un plagiario, no spoiler…)
O si incontrano un’altra volta i profumi e i colori di una terra mediterranea, in mezzo agli inganni e alle delusioni degli umani e ancora al brillare immobile della natura. C’è sempre conflitto fra la natura e la natura umana, se la natura -le due nature- non sono benedette dalla cultura. Ma la natura si rigenera sempre: “il silenzio dei campi. Il cielo era terso.”
“La gente che vale qualcosa di solito è ricca”, dice nel libro il molto antipatico antagonista, ma vi sono coloro che bastano a sé stessi, che sanno che felicità è desiderare ciò che si ha, come insegnano sia Sant’Agostino che Oscar Wilde. Ed è proprio questo che tiene viva la speranza.
Si vive di “lente abitudini e di attese silenziose”, di balbettii che sono il gesticolare dell’anima, timidezze, ritrosie, esitazioni, ebrezza fatalista e momentanea e per questo sempre reiterata.
“Il creato è… è una me… meraviglia”: un vecchio ha bisogno di un muro, di un solido sostegno, dove potersi appoggiare.
Crescendo e climax, in alternanza ben dosata di speranza e disperazione, di ricerca forsennata e attitudini compassionevoli, fra accettazione dell’esistente e ironia che disseziona: Voi non lavorate? Vien detto, con durezza e disprezzo ad Amadeus: “No… insegno.” “Beh, almeno fate qualcosa…”
La Location: nel ‘700, Selva, Medicina, la Romagna “solatìa, dolce paese”, la pianura padana, fino a Bologna. E, sopra, un cielo che ti schiaccia -la meteorologia è la parte bassa della mitologia- “la campagna era ancora cupa e minacciosa.”
Ma il giusto è portavoce di tutte le creature, ed entrano allora in azione le ‘strutture dinamiche significanti’, che Lukàcs ne La Teoria del Romanzo chiama ‘forme’, dei modi privilegiati nel rapporto tra anima umana e assoluto. Sono proprio categorie del sentire: fra molte altre, ad esempio, “l’ostinata allegria che a volte nasconde la sofferenza”.
Formule del Pathos che hanno radici nei miti.
Lo spirito della competizione, la volontà di primeggiare, e il potere della concorrenza, tutto questo, e molto altro, è condensato nella contesa -musicale- fra Apollo e Marsia, un dio e un satiro, che aveva raccolto nel bosco l’aulo, un flauto doppia canna, gettato via da Atena. La dea lo aveva buttato via, maledicendo chiunque lo avesse raccolto, perché gli dei dell’Olimpo, sempre troppo umani, si erano presi gioco di lei, che aveva deformato il suo volto -Dizzy Gillespie!- per suonarlo. Apollo vince la sfida, con un inganno, e, legato Marsia ad un albero, lo scortica vivo. Satiri, ninfe e fauni accorsero piangenti. Dalle loro lacrime sgorgò un fiume.
“Mi sfili dalla mia persona!”, dice il satiro, sotto tortura, al dio del Sole, della Musica, della Scienza e della Profezia.
Per comprendere a fondo il significato mitico e allegorico di questo mito di sangue, è perfetto il quadro di Tiziano su questo argomento.
Fra le molte questioni psichiche che questo libro svela c’è anche questa.
C’è il Mistero della reincarnazione, oltre ai misteri mondani del Doppio, della Maschera, dei destini incrociati, delle influenze e del traffico di influenze, del nodo fra imitazione e mimesi. L’esperienza vissuta diventa tanto più racconto “quanto più puramente le intuizioni psicologiche esprimono la successione di fatti psicologici reali, anche se complicati.” Lo scrive Wilhelm Dilthey, che ha fatto dello studio dell’esperienza della vita l’origine di ogni teoria, di ogni interpretazione.
La felicità dura un istante ma la vera felicità è essere -quasi sempre se si può- non-infelici, non attaccati alle cose, consapevoli di ciò che si ha e mai desiderando ciò che non si ha. Questo il vero significato del proverbio “chi si accontenta gode”: essere quasi-felici, calmi in mezzo alle passioni, e capaci di resistere e di non soffrire, fedeli alla vita, nonostante tutto. Lo spiega Gottfried Benn in un lampo: “La vita è tragica ma è resa serena dalla misura.”
In un Epilogo sorprendente, cataclisma e rivelazione, c’è tutto: trasvalutazione dei valori, liberazione della donna, caduta dell’Io, mimesi totale, dissoluzione del male nel bene, e persino estrazione del bene -questo è il voler-bene- dal male.
In una delle canzoni d’amore fra le più belle mai scritte, resa assoluta dalla voce di Van Morrison, Have I told you lately (that i love you), viene detto il senso profondo dell’amore: you fill my heart with gladness, take away my sadness, ease my troubles, that’s what you do. Quasi tutto qui.
Questa fiction è molto vera, il suo Autore, autentico e sincero, tocca sentimenti universali e unisce il talento alla dignità, nella fiamma misurata del saper raccontare.
È, come ci insegna Bertolt Brecht, “la semplicità che è difficile a farsi.”